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Lavorare sulla relazione in carcere

 

Note e memorie dell'esperienza di lavoro svolta in dieci anni di lavoro, presso gli Istituti Penitenziari di Reggio Emilia e di Parma.

Ho iniziato ad occuparmi di gruppi in seguito ad una richiesta della Direzione della Casa Circondariale della mia città. Lavoravo in carcere già da qualche anno, occupandomi di orientamento dei detenuti ai Servizi del territorio reggiano e, da pochi mesi, avevo iniziato l’attività di psicologa per l’AUSL, occupandomi di accoglienza dei detenuti nuovi giunti e di percorsi individuali di accompagnamento e sostegno alla detenzione.

La richiesta fattami prevedeva di stendere un progetto d’intervento di gruppo, consistente in incontri almeno quindicinali con una ventina di persone detenute, recluse entro il reparto dei ‘protetti-differenziati’.

Ero a digiuno di psicologia di gruppo; non potevo basarmi su una vasta esperienza professionale, se non qualche docenza che avevo tenuto nella scuola media-superiore ed universitaria e che non era certo riconducibile ad un intervento di tipo clinico, ma esclusivamente formativo. Così mi chiedevo cosa avrei fatto io con un gruppo del genere, come si poteva lavorare con simili persone.

Presa dal desiderio di fare del mio meglio, avevo cominciato a raccogliere e leggere diverso materiale sugli interventi con i gruppi, inoltre avevo cercato della documentazione sull’intervento specifico con questa tipologia di detenuti, che reputavo fondamentale conoscere per poter creare un progetto su misura. Ero sicura che se mi fossi creata una conoscenza approfondita sugli studi criminologici realizzati su questa particolare popolazione di offender, avrei potuto strutturare degli incontri su misura per loro, riuscendo a prevederne contenuti, risvolti e caratteristiche di processo.

E così ho raccolto un bel bagaglio di nozioni: con il termine protetti-differenziati s’intendono quei detenuti che non possono vivere nelle sezioni comuni, perché hanno tenuto comportamenti contrari all’etica della maggioranza della popolazione detenuta (compiere reati di natura sessuale, in special modo la pedofilia, o collaborare con la giustizia). Sono quindi riuniti in apposite sezioni e, per restare “differenziati” dagli altri, non hanno contatti con il resto della popolazione detenuta, essi vivono, mangiano e vanno all’aria sempre e solo tra di loro.

Mi sentivo stimolata dalla sfida, ma allo stesso tempo un po’ spaventata e perplessa, mi chiedevo come avrebbero reagito quegli uomini, reclusi per reati così faticosi persino da immaginare, come avrebbero accolto l’iniziativa e che uso ne avrebbero fatto. Le nozioni apprese su questa particolare popolazione mi avevano inquietato non poco, mi chiedevo come si poteva gestire un gruppo simile, come contenerlo, limitarlo nelle tematiche che sentivo faticose soprattutto per me.

Dentro di me sentivo che realizzare degli incontri con i protetti, per consentire il confronto in un ambiente ‘protetto’, poteva essere un’azione importante, umana e potenzialmente terapeutica, ma allo stesso tempo pensavo a quello che avevo visto succedere alle persone in carcere e non ero certa che questi detenuti avrebbero partecipato.

Ad oggi la detenzione è intesa come semplice privazione della libertà, che non rimanda esclusivamente ad aspetti fisici, ma costituisce di fatto l’impossibilità per l’uomo detenuto di continuare ad esistere come attore sociale, relazionato al sistema ed all’ambiente di cui è parte. L’individuo ristretto, pur restando padre, marito, fratello, è costretto ad abdicare ai ruoli che riveste nella vita libera e, d’altro canto a questa spoliazione dei suoi ruoli si accompagna un’esperienza carceraria in cui tutto, dai tempi di colloquio, alle figure con cui egli si relaziona, riconduce costantemente ad un unico ruolo, quello del delinquente. Tale ruolo con i suoi significati rischia di espandersi, sottraendo spazio ad altre sfere e sfumature che costituiscono l’identità del singolo individuo, come se la detenzione facilitasse una definizione degli indicatori dell’identità in negativo, eliminando progressivamente punti di vista alternativi.

Nel mio lavoro con le persone detenute da sempre quello che mi colpisce di più è il loro ritiro e l’intensità del vissuto di disagio. La persona reclusa si trova in un costante stato di difesa e di diffidenza, privato di una parte dei suoi diritti ed alla mercè di una convivenza forzata il detenuto si difende costantemente e non si fida di nessuno. La brutalità della vita reclusa è fatta di tanti particolari che rimandano a milioni di maschere, utilizzate per fare buon viso a cattivo gioco, per proteggersi da minacce sempre in agguato che colorano spazio e tempo di toni cupi e malinconici e di relazioni generalmente povere e superficiali, oppure intense, ma unidirezionali.

Il leit motiv che lega le diverse fasi di una carcerazione (arresto, fermo, convalida, detenzione) è il processo di depersonalizzazione. Il detenuto non viene solo privato della libertà fisica; egli viene registrato con un numero, non sente quasi più pronunciare il suo nome di battesimo e viene spogliato dei suoi oggetti personali al momento dell’ingresso in Istituto, fede nuziale, orologio, orecchini, collane, fotografie...tutto viene depositato in una busta e conservato in magazzino, sino a nuova disposizione.

Durante la detenzione l’autonomia decisionale dell’individuo è ridimensionata, egli non ha più il controllo dei propri spostamenti, deve rispettare gli orari, 

 

 

seguire le indicazioni degli operatori di polizia penitenziaria e rimettersi alle decisioni del Magistrato, che può stabilire un trasferimento. Alla rigidità di movimento segue di pari passo la rigidità normativa, gerarchica ed organizzativa. Il clima di potere autocratico, che caratterizza la vita detentiva, facilita un processo regressivo di detenuti ed operatori, che tarano la loro quotidianità sul fare richieste e sull’attesa di una risposta. Le paure più primitive, risvegliate dalla depersonalizzazione e dalla convivenza forzata, vengono utilizzate per mantenere il controllo, facendo promesse e concessioni, al fine di mantenere il potere autocratico per controllare il detenuto. Le forti pressioni esercitate sui detenuti creano un clima di diffidenza diffusa, ognuno è potenzialmente un nemico per gli altri ed il potere individuale risulta indebolito, vista la quasi totale assenza di cooperazione.

Ogni azione è normata da un regolamento, dipende da un permesso, quasi nulla dipende dal singolo. Si verifica una progressiva riduzione delle situazioni nelle quali egli possa sperimentarsi nella presa di decisione e nella conseguente assunzione di responsabilità. Le scelte, i bisogni ed i desideri del detenuto dipendono da chi ha la facoltà di decidere, al punto che con il passare del tempo la deresponsabilizzazione e la dipendenza dalle decisioni dell’altro diventano parte di uno stile di vita e talvolta il 

detenuto smette di chiedere, chiudendosi nell’attesa del fine pena. Per molti detenuti l’attesa riempie inesorabilmente ogni pertugio, ogni frammento di tempo e ogni pensiero, spesso in questa condizione fare qualunque cosa perde di significato, e si rinuncia a qualunque forma di attivazione soggettiva, sviluppando abulia ed anedonia.

Durante la detenzione il detenuto non è mai solo, mai lontano dallo sguardo altrui e la convivenza non è scelta, ma imposta. Per questo, nonostante le persone siano generalmente in gruppo, la distanza che si percepisce tra loro è immensa; vige la regola non scritta dell’evitamento dei discorsi e delle domande sulla vita personale, sugli affetti, sulla sofferenza. I temi più affrontati sono quelli del comportamento criminale, dei reati, passati...a volte futuri, si parla di processi, di udienze, di appelli, di avvocati, di leggi...sembra quasi di sentirlo questo rumore omogeneo di sottofondo che annulla, nasconde, protegge tutto il resto. In carcere c’è anche chi sceglie di sottrarsi al rumore delle chiacchiere e di sfruttare altri lenitivi, quali sono i farmaci, gli psicofarmaci, che svolgono un’importante funzione preventiva e trattamentale, ma che spesso vengono assunti per ottenere un effetto esclusivamente sedativo ed alienante. Ci sono poi alcune persone che riescono a resistere alla spinta all’inattività, coltivando passioni ed hobby personali, come la lettura, il disegno e che sviluppano forme di creatività impensata, come costruire dal nulla un forno con la carta stagnola per cuocere la pizza o piccole sculture assemblando oggetti di scarto.

A livello interpersonale, l’alienazione del detenuto assume forme diverse. Essa porta a falsare ogni relazione, da quella con i familiari a colloquio, che incontrano il detenuto sorridente, che racconta di star bene e spesso cerca di far sorridere i figli e la moglie, a quella con gli operatori ai quali il ristretto cerca di mostrare, nella maggior parte dei casi, il suo lato migliore, spesso alla ricerca di quella relazione ‘alla pari’, che in carcere non è scontata, quanto preclusa da ruoli e peculiarità personali.

Alla luce di quanto detto non è difficile credere che la popolazione detenuta sia particolarmente esposta a crisi depressive, che possono sfociare in atti di violenza, laddove non vi siano gli spazi per portare ed elaborare i propri vissuti emotivi. Ciò si verifica con maggior frequenza in quelle persone con pochi strumenti, disabituate all’inattività fisica ed alla gestione di 

emozioni e pensiero. Durante la detenzione, l’attività cognitiva diviene spesso quella dominante, le idee sono spesso ripetitive, persistenti, invadenti, ossessive e molto faticose. Per quei detenuti più fragili e meno abituati a questa ‘predominanza cognitiva’, è frequente la messa in atto di agiti auto ed etero-lesivi, come autolesionismo, tentativi di suicidio e suicidio, sciopero della fame, aggressioni verbali e fisiche, che rimandano ad un’elaborazione faticosa o quasi essente dell’esperienza detentiva in corso e del vissuto emotivo che l’accompagna. La condizione d’isolamento affettivo in cui si trovano i detenuti finisce con l’indebolire le loro risorse personali. Molti di loro spesso finiscono con il rinunciare al contatto con i propri sentimenti, con le proprie emozioni e con se stessi; progressiva e lenta si struttura la perdita della consapevolezza del proprio valore.

Questa condizione, definita ‘ibernazione penitenziaria’, descrive un percorso detentivo, al termine del quale si ritiene che questi individui vengano ‘restituiti’ alla società ancora con tutte le proprie caratteristiche ‘antisociali’, semplicemente come se fossero stati scongelati ed allo stesso tempo fossero aridi di umanità e con in più una forte dose di rancore, anche conseguente alle condizioni detentive. A questo proposito ricordo il racconto di un giovane detenuto albanese, il quale dopo la sua prima esperienza 

 

detentiva, era rimasto ‘recluso’ volontariamente nella sua stanza per due mesi, a causa della rabbia che si sentiva addosso e che inevitabilmente gettava contro chiunque lo avvicinasse. Smaltire questo vissuto, proprio di un’animale ferito, aveva richiesto tempo e parecchio autocontrollo, ed aveva causato una profonda sofferenza personale. Mi chiedo quanti siano in grado di riconoscere il rischio della rabbia e dell’aggressività assorbite durante un’esperienza come quella detentiva e quanti riescano ad auto-contenersi ed a trovare il modo di elaborarla o quantomeno gestirla.

L’Art.1, comma 2, del Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n.230, ovvero del Regolamento recante norme sull'Ordinamento Penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, recita: “Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”.

Alla luce della mia formazione all’Approccio Centrato sulla Persona, la ricetta per questo mandato mi appare sin troppo evidente. La relazione facilitante consente il recupero del contatto con il proprio sè autentico, con il proprio sentire, grazie ad un clima di accettazione positiva incondizionata ed empatia che favorisca l’auto-svelamento. L’io si consolida nel contatto con il tu, verso il quale è proteso sin dalla nascita e, attraverso questo scambio, l’individuo impara a riconoscere il proprio io, pervenendo così ad una separazione naturale.

La relazione può così funzionare come un tirocinio o una palestra, in cui l’individuo si riappropria del contatto con la propria esperienza attuale, i propri vissuti emotivi e la propria percezione. È questo contatto, questa auto-comprensione che secondo Rogers innesca il cambiamento, proprio secondo l’assunto per cui, nel momento in cui si diviene consapevoli del proprio vissuto e si accetta questo sentire, si è già cambiati. Contattando i propri sentimenti e le proprie emozioni attraverso il feedback dell’altro, l’individuo può confrontarsi sempre più profondamente con essi, viverli senza temerli, accettarli come propri e può quindi giungere a valutare razionalmente la problematica in questione e risolverla.

Secondo l’Ordinamento Penitenziario, il trattamento del detenuto implica la creazione di spazi, attività e servizi specifici, atti a stimolare il cambiamento, inteso come crescita della persona. Nell’ambito di questo intervento si collocano il lavoro, la scuola, i corsi di formazione, l’attività sportiva ed i colloqui con gli addetti al trattamento.

Da questo punto di vista mi sento di dire che, oltre alle attività concrete previste, l’Ordinamento stesso riconosca l’importanza della relazione come strumento di cambiamento e m’interrogo sui grandi numeri degli ultimi anni, sul sovraffollamento e sul budget orario del personale addetto al trattamento e, come è già avvenuto nella storia del trattamento psicologico, è a questo punto che mi viene da pensare al risparmio di tempo, energie e personale di cui si godrebbe, se fosse possibile organizzare interventi di gruppo sistematici entro gli Istituti Penitenziari.

Entro una realtà in cui le emozioni dominanti sono rabbia, vergogna, solitudine, tristezza, disperazione ed in cui si abusa di distacco affettivo ed emotivo, di scissione da ciò che fa male, di razionalizzazione, di proiezione, di fantasticazione e di agiti, non riesco a fare a meno di cogliere l’efficacia potenziale di un intervento di gruppo.

Una volta Rogers ha scritto che la ‘fortuna’ del lavoro con i gruppi nel corso degli anni si doveva attribuire, tra le altre cose, alla “fame di rapporti [...] in cui sentimenti ed emozioni possano essere espressi con spontaneità, senza essere preventivamente censurati o repressi”. Di fronte alla realtà detentiva, per come io l’ho conosciuta non posso che notare l’enormità di questa fame nel mondo penitenziario, al punto che in molti, detenuti ed operatori, sviluppano le forme più diverse e spesso deleterie di allontanamento da questo bisogno frustrato ed insoddisfatto.

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